In base alla normativa nazionale, decorso il termine stabilito per l’attuazione dei piani particolareggiati, quali i Piani Attuativi, questi diventano inefficaci per la parte che non abbia avuto attuazione, rimanendo fermo a tempo indeterminato soltanto l’obbligo di osservare gli allineamenti dei fabbricati e le prescrizioni di zona stabilite dai piani stessi (art. 17 della L. 1150 del 17.8.1942).
La L.R. Umbria 1/2015, all’art. 57, riproduce sostanzialmente le previsioni della disciplina nazionale, specificando che:
Negli ultimi anni sono intervenute diverse norme che hanno disposto la proroga per legge del termine di validità delle convenzioni urbanistiche, accordi similari e relativi piani attuativi.
Il D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”), all’art. 30, co. 3-bis, ha disposto che il termine di validità, nonché i termini di inizio e fine lavori nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione (art. 28 L. 1150/1942), ovvero degli accordi similari comunque nominati dalla legislazione regionale, stipulati sino al 31 dicembre 2012, sono prorogati di tre anni.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa non è stata concorde nello stabilire se tale proroga di tre anni dovesse ritenersi applicabile anche alla validità dei piani attuativi o meno (favorevole a tale interpretazione Tar Umbria, 10.7.2014, n. 381; contrari il Tar Veneto, Sez. II, 19.6.2019, n. 743 e Tar Campania, Sez. II, 14.2.2018, n. 10).
La questione sembrerebbe tuttavia essere stata superata dall’art. 10, co. 4-bis, del D.L. 16.7.2020 n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”) che, nel disporre un’ulteriore proroga di tre anni degli stessi termini prorogati dal “Decreto del Fare” del 2013 per le convenzioni di lottizzazione ed accordi similari, ha precisato che tale proroga riguarda anche i “relativi piani attuativi”, con l’ulteriore precisazione che la medesima si applica anche a quei piani attuativi “che hanno usufruito della proroga di cui all’art. 30, co. 3-bis, del D.L. n. 69/2013 (c.d. “Decreto del fare”).
La nuova disposizione di proroga del luglio 2020 sembra pertanto contenere un inciso di “interpretazione autentica” della disposizione del 2013 e così rendere esplicita l’applicabilità ai piani attuativi di entrambe le proroghe triennali (del 2013 e del 2020).
Per i piani attuativi approvati prima del 31 dicembre 2012 pertanto le potenziali proroghe sono due, entrambe di tre anni, con possibile postergazione massima del termine di complessivi sei anni.
La Scuola Forense “Gerardo Gatti” del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Perugia, in collaborazione con il Distretto Didattico Territoriale di Perugia della Scuola Superiore della Magistratura, ha organizzato per il prossimo 5 Novembre un interessante convegno in materia di contratti pubblici.
Responsabili della Sessione gli Avv.ti Fabio Amici e Fabio Buchicchio dello Studio Avvocati & Commercialisti, componenti del Comitato Scientifico Scuola Forense “Gerardo Gatti” ed esperti di diritto amministrativo.
Di particolare interesse le relazioni del Consigliere di Stato Stefano Fantini, che proporrà una rassegna dei più recenti trend giurisprudenziali in materia di contratti pubblici, e dell’Avv. Stato Mario Capolupo, Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, che illustrerà le riforme normative in itinere nell’ambito del quadro di riferimento del PNRR.
Il successivo dibattito tra i partecipanti e gli avvocati del Foro vedrà la già programmata partecipazione del Presidente della Camera Amministrativa dell’Umbria, Avv. Massimo Marcucci, e dell’Avv. Daniele Spinelli, docente alla SDA Bocconi School of Management ed esperto del settore.
Con la sentenza n. 5545 del 17.9.2021, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha negato la natura concorsuale delle procedure di formazione delle Graduatorie Provinciali per le Supplenze nella Scuola (GPS), attribuendo le relative controversie al Giudice Ordinario.
Si tratta di una decisione a dir poco sorprendente, che ribalta una pronuncia di soli dieci giorni prima della stessa VI Sezione che sembrava avere definitivamente risolto la questione sulla giurisdizione in materia di GPS.
Con la sentenza n. 6230 del 7.9.2021, infatti, la IV sezione del Consiglio di Stato aveva riconosciuto la natura concorsuale delle procedure di formazione delle GPS, chiarendo che, comunque, la giurisdizione dovesse essere stabilita avuto riguardo al petitum sostanziale.
Tale decisione, dopo mesi di contrasti tra i tribunali regionali amministrativi italiani, aveva infatti ritenuto che le modalità di formazione delle GPS non fosseroidonee ad escludere la tradizionale qualificazione della relativa procedura come concorsuale, sebbene per essa non sia prevista la costituzione di una commissione di concorso per la valutazione dei titoli (in prima battuta tale valutazione è affidata al sistema informatico e solo successivamente agli uffici scolastici), né l’attribuzione dei punteggi sulla base di veri e propri criteri di valutazione (che vengono assegnati in base a quanto previsto dalle tabelle allegate all’ordinanza ministeriale di indizione della procedura).
A soli 10 giorni da tale pronuncia, tuttavia, la medesima IV sezione ha effettuato una valutazione dai contenuti diametralmente opposti.
Con la ricordata sentenza n. 5545 del 17.9.2021, infatti, il Consiglio di Stato ha statuito che per l’inserimento nelle GPS “non è previsto alcun bando di concorso, né procedura selettiva, né valutazione degli aspiranti, ma tale inserimento è asetticamente predeterminato dall’O.M. 60/2020 […] all’esito di una operazione di mero acclaramento con riguardo ai titoli posseduti e dichiarati dal candidato”.
Pertanto, secondo il Collegio, le GPS devono essere parificate alle vecchie Graduatorie ad Esaurimento (GAE), per le quali viene pacificamente negata da anni la natura di procedura concorsuale, con le relative conseguenze in termini di giurisdizione del giudice ordinario.
Ad oggi, dunque, anche a fronte di ripetuti pronunciamenti contrastanti di molti TAR, continuano a permanere dubbi in ordine al giudice da adire nell’ambito di controversie sulle GPS, con buona pace dei docenti e del principio costituzionale del giudice naturale precostituito.
A cura dell’Avv. Chiara Egle Orsini
Con l’entrata in vigore il 22 settembre u.s. del D.L. 127/2021 è stato introdotto l’obbligo del possesso della certificazione verde (green pass) per tutti gli ambienti di lavoro, privati e pubblici, a partire dal 15 di ottobre p.v. sino al 31 dicembre 2021 (salvo ulteriori proroghe), data che coincide con il termine finale dello stato di emergenza.
Dal 15 ottobre, pertanto, tutti i lavoratori che vorranno accedere ai luoghi di lavoro, unitamente a coloro che prestano attività di formazione e/o di volontariato presso i locali aziendali, dovranno essere in possesso del green pass in corso di validità ed esibirlo in fase di opportuno controllo, altrimenti dovrà essere impedito loro l’ingresso ai locali aziendali.
Sotto il profilo della tutela della riservatezza, due elementi assumono particolare rilievo:
(a) non è consentito al datore di lavoro (sia esso pubblico o privato) richiedere ai dipendenti se siano vaccinati o meno, o di fornire informazioni sul proprio stato vaccinale;
(b) il controllo del datore di lavoro dovrà essere mirato esclusivamente a verificare la validità del green pass e dovrà essere istantaneo, senza cioè determinare la conservazione e/o la raccolta dei dati personali dei lavoratori.
La nuova normativa (art. 3 del D.L 127/2021 che è intervenuto modificando l’art. 9 septies del D. L. 52/2021), calibrata in relazione alle disposizioni vigenti in materia di privacy, introduce poi per i datori di lavoro – che si trovano ad essere titolari di questa nuova attività di trattamento – alcuni obblighi specifici, che possono essere così riassunti:
– definizione, entro il 15 di ottobre 2021, delle modalità operative per l’organizzazione delle verifiche nei luoghi di lavoro (da poter effettuare anche a campione), mediante stesura di una specifica e dettagliata policy aziendale, da rendere fruibile a tutti i soggetti interessati al trattamento;
– predisposizione di un apposito atto di designazione in forza del quale sarà individuato ed espressamente autorizzato (ai sensi dell’art. 29 del GDPR), su indicazione del datore di lavoro, il soggetto incaricato di controllare la validità del green pass (c.d. verificatore), mediante l’utilizzo dell’applicazione digitale “VerificaC19”, che potrà essere installata su dispositivi mobili o fissi forniti dall’azienda, nonché la corrispondenza dei dati anagrafici con quelli visualizzati dalla predetta applicazione;
– informazione al lavoratore subordinato (ovvero al professionista o collaboratore autonomo dell’azienda), interessato dalle operazioni di controllo, sul trattamento dei suoi dati personali (art. 13 GDPR), che verrà effettuato tramite verifica del green pass con l’applicazione digitale “VerificaC19”;
– aggiornamento ed integrazione del registro dei trattamenti aziendali con le informazioni relative alle modalità di verifica della validità del green pass, con il rischio di incorrere, in caso contrario, nelle sanzioni previste dall’art. 83 del GDPR.
Sarà pertanto indispensabile curare puntualmente la compliance a tali adempimenti, poiché l’omissione delle misure a tutela della privacy esporrebbe il datore di lavoro al rischio di essere destinatario non solo delle sanzioni previste dalla normativa emergenziale di cui all’art. 9 septies, comma 9, del D.L. 52/2021 (come modificato dall’art. 3 del D. L. 127/2021), ma anche di quelle delineate dalla normativa generale di cui al GDPR.
A cura dell’Avv. Leonardo Gagliardini
Con la sentenza n. 6477 pubblicata il 27 settembre scorso, in un giudizio curato dall’Avv. Amici per lo Studio Mariani Marini, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha precisato alcuni principi in materia di c.d. ottemperanza di chiarimenti e danno da perdita di chance.
Il caso era quello di una società, ingiustamente esclusa per alcuni mesi dalla possibilità di partecipare a gare pubbliche a causa di una erronea annotazione nel casellario informatico dell’A.V.C.P., che aveva ottenuto dal TAR (con decisione confermata in appello) una sentenza in suo favore di condanna al risarcimento del danno.
All’esito della mancata determinazione del quantum, non liquidato in sede di merito, era stato avviato un giudizio di ottemperanza avanti al Consiglio di Stato conclusosi con una liquidazione da parte del Commissario ad Acta, che nell’ambito della sua attività di stima aveva chiesto ed ottenuto dal Collegio chiarimenti in ordine ai criteri di quantificazione ai sensi dell’art. 112, co. 5, e 114, co. 7, c.p.a.
La relativa ordinanza di chiarimenti, unitamente alla determinazione del Commissario ad Acta, erano state poi oggetto di richiesta di revoca da parte dell’impresa, prima, e di successivo reclamo ex art. 114, co. 6, poi.
Con la sentenza n. 6477/2021 il Consiglio di Stato ha compiuto una attenta valutazione in ordine alla ammissibilità del reclamo, in ragione del contenuto effettivo (decisorio o meno) del provvedimento adottato a seguito della richiesta di chiarimenti ed ha scrutinato l’esatta portata della sentenza di condanna e del danno da perdita di chance riconosciuto dal Tar, con una attenta analisi della differenza tra chance secondo la c.d. concezione ontologica e chance secondo la c.d. concezione eziologica.
Sulla conseguente liquidazione in via equitativa e sugli elementi di prova da acquisire nel giudizio di merito sono stati poi precisati i più recenti approdi giurisprudenziali di settore ed è stata poi emessa la pronuncia di rigetto del reclamo.
Con la sentenza n. 630 pubblicata lo scorso 13 settembre, Il Tar Umbria ha affermato un importante principio in tema di poteri delle commissioni esaminatrici nella fissazione di un voto minimo per il superamento delle prove preselettive, laddove il bando di concorso non aveva fissato soglie di superamento di tali prove.
La questione centrale all’esame del Tar Umbria atteneva appunto alla definizione dei poteri della Commissione esaminatrice di concorso rispetto allo svolgimento ed alla valutazione delle prove preselettive.
In giurisprudenza si contrapponevano due orientamenti specifici in tema di indicazione del voto minimo di superamento delle preselezioni da parte della Commissione: uno più risalente del Consiglio di Stato (Sez. V, ord. n. 5346/05) che aveva affermato che la Commissione potesse discrezionalmente stabilire il punteggio minimo di idoneità (non indicato dal bando) e non anche il numero massimo dei candidati idonei, in quanto la prima attività attiene alla mera determinazione/specificazione dei criteri di valutazione delle prove preselettive, rimessa appunto alla Commissione; un altro orientamento più recente di alcuni Tribunali Amministrativi Regionali (Veneto e Puglia) riteneva invece che, se il bando non aveva fissato un voto minimo per il superamento delle prove preselettive, sarebbe stato precluso alla Commissione individuarlo, laddove ciò avesse ridotto il “numero massimo” dei candidati da ammettere alle prove di esame. Sullo sfondo di tale ultimo orientamento restrittivo vi era l’affermazione secondo la quale le preselezioni hanno il solo scopo di “scremare” il numero dei candidati di concorso, al fine di garantirne la “celerità” delle relative operazioni, e non anche quello di operare una prima selezione dei più meritevoli.
Il Tar Umbria, con la decisione n. 630/2021, in totale controtendenza rispetto al più recente orientamento di altri tribunali amministrativi, ha affermato che “anche in assenza di un’espressa prescrizione ad hoc, la commissione di concorso può stabilire il punteggio minimo di idoneità per limitare il numero dei candidati da ammettere alle prove scritte”.
Sono state pertanto recepite le difese dell’amministrazione, difesa dall’Avv. Fabio Amici, con le quali era stato sottolineato come sottrarre alla Commissione esaminatrice il potere discrezionale di fissare il voto di superamento della prova, pur non precisato dal bando, avrebbe significato obliare il principio di carattere generale secondo il quale la Commissione può specificare i contenuti delle prove fino al limite di non introdurre nuovi criteri di valutazione non conosciuti dai candidati al momento della presentazione delle domande.
La questione della giurisdizione per i ricorsi contro le GPS è stata oggetto nell’ultimo anno e mezzo di innumerevoli pronunce di TAR, che, in prevalenza, hanno affermato la giurisdizione del Giudice Ordinario, equiparando le GPS alle GAE.
Recentemente, tuttavia, sono intervenute due sentenze del Consiglio di Stato che hanno chiarito tale questione (Cons. St., Sez. VI, 9.3.2021, n. 2007; Cons. St., Sez. IV, 7.9.2021, n. 6230).
Il Consiglio di Stato ha precisato, in primo luogo, che, diversamente dalle graduatorie ad esaurimento (GAE), nel caso delle GPS ricorrono “tutti gli elementi caratteristici della procedura concorsuale pubblica vale a dire il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi dei titoli, la presenza di una commissione incaricata della valutazione dei titoli dei candidati e la formazione di una graduatoria finale” (Cons. Stato. n. 6230/2021 cit.).
Il Supremo Collegio ha poi ulteriormente chiarito che la formazione delle graduatorie attraverso l’affidamento della valutazione dei titoli in prima battuta al sistema informatico, che assegna i punteggi sulla base delle tabelle allegate all’ordinanza, e successivamente agli uffici scolastici che procedono alla verifica della conformità tra titoli dichiarati e quelli posseduti, non sia idonea ad “escludere la tradizionale qualificazione della procedura come concorsuale”.
La giurisdizione del giudice amministrativo deriva dunque dall’applicazione dell’art. 63, co. 4, del D. Lgs. 165/2001, in base al quale sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Lo stesso Consiglio di Stato, nella recente pronuncia n. 6230 del 7 settembre scorso, ha poi ribadito che, in ogni caso, l’accertamento sulla giurisdizione dipende anche dal petitum sostanziale dedotto in giudizio, ed in particolare:
(1) qualora la domanda del ricorrente si limiti a chiedere l’accertamento del proprio diritto di inserimento in graduatoria scaturente direttamente dalla normazione primaria (e pertanto corrispondente ad una mera verifica dei titoli analoga a quella compita per l’inserimento nelle GAE), e ciò senza alcuna attività amministrativa di interpretazione ed applicazione discrezionale di specifiche disposizioni del bando (l’ord. n. 60/2020), la giurisdizione appartiene al giudice ordinario;
(2) viceversa, laddove si sia in presenza di un atto amministrativo discrezionale, tipico della natura concorsuale della procedura, e quindi di una attività di interpretazione delle disposizioni del bando e di graduazione del punteggio in seguito alla ponderazione della loro idoneità ad essere positivamente valutati, la giurisdizione è del giudice amministrativo.
Con la sentenza n. 6347 depositata ieri la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha certificato il radicale mutamento di orientamento in materia di avvalimento c.d. esperienziale, ovvero quello relativo alle “esperienze professionali pertinenti” di cui all’art. 89, co 1 del Codice dei Contratti.
Se fino alla primavera di questo anno l’indirizzo consolidato prevedeva l’obbligo di esecuzione diretta dei lavori e dei servizi per la quali erano richieste capacità ed esperienze infungibili in ogni settore di attività, con la decisione di ieri, il Consiglio di Stato, dando seguito ad altre due precedenti di marzo ed aprile 2021, ha ribadito che l’interpretazione della norma deve avere un carattere restrittivo e letterale, cosicché i profili di infungibilità debbono ritenersi riferiti ai soli casi in cui siano richiesti titoli di studio e professionali e pertanto solo in questo vi deve essere in sede di contratto di avvalimento l’impegno alla esecuzione diretta da parte dell’ausiliari.
Altro importante principio è stato affermato in materia di gratuità o onerosità dell’avvalimento nei casi in cui il contratto non indichi il corrispettivo in favore dell’ausiliaria, ma lo rimetta ad un separato accordo.
Il d.lgs. n. 387 del 29 dicembre 2003 ha recepito la direttiva 2001/77/CE relativa alla “promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità”.
In particolar modo, l’articolo 12, comma 5, d.lgs. n. 387/2003 cit. aveva stabilito che per l’installazione di impianti di fonte rinnovabile la cui capacità fosse inferiore a quella prevista nella Tabella A allegata al d.lgs. citato, ossia minore di 20 KW per gli impianti fotovoltaici, si applicava la disciplina della denuncia di inizio attività (ora SCIA) di cui agli artt. 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001.
Successivamente, con il D.M. del Ministero dello Sviluppo Economico del 10.9.2010, sono state emanate le “Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”, le quali hanno disposto le diverse procedure da seguire per poter richiedere il permesso per procedere ad installare un impianto fotovoltaico o altri impianti relativi a fonti di energia rinnovabile.
Tali disposizioni ministeriali e le successive modifiche della normativa di settore hanno condotto ad un quadro che prevede oggi tre diverse tipologie di autorizzazioni amministrative.
All’interno delle ricordate Linee Guida è stato disciplinato in maniera dettagliata l’iter per richiedere l’autorizzazione unica (AU) riguardante tutti gli impianti che superano i limiti previsti dalla tabella A del d.lgs. n. 387 del 2003 cit. (20 KW, come vedremo poi elevati a 1MW).
L’AU, coinvolgendo tutte le amministrazioni competenti (tramite l’indizione di una conferenza di servizi), risulta sostitutiva di tutti gli altri atti di assenso delle P.A. coinvolte e, in particolar modo, una volta approvata, può modificare anche il PRG comunale. Su istanza di parte può essere applicata in via residuale anche per gli impianti con una potenza inferiore rispetto alle soglie previste dalla tabella A citata.
2. Attività libera (semplice comunicazione)
Al paragrafo 11, punti 9 e 10, delle cennate Linee Guida viene altresì indicata la procedura da seguire qualora l’installazione di un impianto di energia rinnovabile rientri nella c.d. “attività di edilizia libera”.
In particolare viene prevista una semplice comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale competente (par. 12.1), alla quale risulta necessario allegare tutte “le autorizzazioni eventualmente obbligatorie ai sensi delle normative di settore” (par. 11.9, lettera a).
Tale comunicazione, in origine, veniva prevista unicamente per gli interventi di installazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui all’articolo 6, comma 2, lettere a) e d), del D.P.R. n. 380 del 2001 (più precisamente: interventi di manutenzione ordinaria e i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola) e di impianti solari fotovoltaici realizzati su edifici esistenti.
Tuttavia, il successivo d.lgs. n. 28 del 3 marzo 2011, all’art. 6, comma 11, nel ribadire che la comunicazione relativa alle attività in edilizia libera, di cui ai paragrafi 11 e 12 delle Linee Guida, debba continuare ad applicarsi, alle stesse condizioni e modalità, agli impianti ivi indicati, ha previsto espressamente che le Regioni e le Province autonome possono estendere il regime della cennata comunicazione “ai progetti di impianti alimentati da fonti rinnovabili con potenza nominale fino a 50 kW, nonché agli impianti fotovoltaici di qualsivoglia potenza da realizzare sugli edifici, fatta salva la disciplina in materia di valutazione di impatto ambientale e di tutela delle risorse idriche”.
Con L. R. 16 dicembre 2011 n. 16, la Regione Lazio ha deciso di estendere il regime della suddetta comunicazione, così come indicato dall’art. 6, comma 11, d.lgs. n. 28 del 3 marzo 2011 cit., prevedendo così che quest’ultima venga applicata “ai progetti di impianti alimentati da fonti rinnovabili con potenza nominale fino a 50 KW, nonché agli impianti fotovoltaici da realizzare sugli edifici ed agli impianti fotovoltaici i cui moduli costituiscono elementi costruttivi di pergole, serre, barriere acustiche, tettoie e pensiline, precedentemente autorizzate (…)” (art. 3, comma 4, L. R. Lazio n.16/2011).
Nella regione Lazio, dunque, gli impianti fino a 50 KW rientrano nel regime dell’attività libera, soggetta a semplice comunicazione preventiva.
3. Procedura Abilitativa Semplificata (PAS).
Infine, l’articolo 6, co. 2, del d.lgs. n. 28 del 2011, al fine di snellire l’iter amministrativo per l’installazione di impianti relativi alla produzione di energia elettrica, ha introdotto la c.d. Procedura Abilitativa Semplificata (PAS).
Ricalcando in parte la normativa prevista per la segnalazione di inizio attività (ex DIA) di cui agli articoli 22 e 23 del DPR 380 del 2001, tale articolo ha stabilito che “Il proprietario dell’immobile o chi abbia la disponibilità sugli immobili interessati dall’impianto e dalle opere connesse presenta al Comune, mediante mezzo cartaceo o in via telematica, almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, una dichiarazione accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che attesti la compatibilità del progetto con gli strumenti urbanistici approvati e i regolamenti edilizi vigenti e la non contrarietà agli strumenti urbanistici adottati, nonché il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie”
Per la procedura appena descritta, il successivo comma 9 dell’art 6 d.lgs. n. 28/2011 ha demandato alle Regioni e alle Province autonome la possibilità di estendere la soglia applicativa agli impianti di potenza nominale fino ad 1 MW elettrico, definendo altresì i casi in cui, qualora siano previste autorizzazioni ambientali o paesaggistiche di competenza di amministrazioni diverse dal Comune, la realizzazione e l’esercizio dell’impianto e delle opere connesse sono assoggettate all’autorizzazione unica.
Anche in questo caso la Regione Lazio ha scelto di estendere l’ambito applicativo della procedura abilitativa semplificata agli impianti per la produzione di energia elettrica con capacità di generazione fino a 1 MW elettrico di cui all’articolo 2, comma 1, lettera e) del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (art. 3, co. 1, l. R.L. n. 16/2011).
Alla luce di tale complessa evoluzione normativa, pertanto, le procedure oggi previste per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili nella regione Lazio è sinteticamente la seguente:
– impianti fino a 50 KW – semplice comunicazione;
– impianti tra 50KW e 1MW – P.A.S.
– impianti superiori a 1MW – A.U.
Nell’ordinamento italiano il carattere della perentorietà del termine può essere attribuito a una scadenza temporale solo da una espressa norma di legge[1], cosicché solo la legge può collegare in via generale al decorso del tempo il mutamento di una situazione giuridica, sia esso un potere dell’amministrazione (perenzione), sia esso un diritto o una facoltà del privato (decadenza)[2].
Pertanto, in assenza di specifica disposizione che espressamente preveda il termine come perentorio, comminando la perdita della possibilità di azione da parte dell’Amministrazione al suo spirare o la specifica sanzione della decadenza, il termine va inteso come meramente sollecitatorio o ordinatorio, sicché il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto[3].
In proposito, è stato altresì osservato che “I termini di conclusione del procedimento, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 241 del 1990, hanno, di norma, natura ordinatoria salvo che la legge di settore li qualifichi come perentori”[4].
La giurisprudenza ha anche sottolineato che “l’individuazione del termine come “perentorio” – oltre che dalla definizione come tale – discende in primo luogo dalla ragione della sua introduzione, normalmente consistente nell’esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento, in coerenza con la giurisprudenza prevalente, secondo cui, per i termini esistenti all’interno del procedimento amministrativo, il carattere perentorio o meno deve essere ricavato dalla loro “ratio” (cfr. Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 25.2.14, n. 10) nonché dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare”[5].
Alla luce di tali principi, dunque, anche nella disciplina urbanistica ed edilizia la natura perentoria dei termini viene sempre desunta dalla lettura combinata delle norme pertinenti e dalla loro ratio.
Ciò non consente agevolmente, nel nostro ordinamento e soprattutto nel caso di procedimenti ed istruttorie complesse, nei quali sono coinvolte molteplici autorità e nei quali non sempre è agevole accertare la completezza e la idoneità di tutto il materiale necessario alla conclusione del procedimento, di stabilire tempi e responsabilità certe di tutti i soggetti coinvolti.
[1] Secondo il principio generale ricavabile dalla norma processuale di cui all’art. 152 comma 2 c.p.c., ai sensi del quale “i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”.
[2] Consiglio di Stato, sez. VI – 8/4/2019 n. 2289.
[3] Ivi.
[4] Consiglio di Stato, sez. VI – 25/5/2020 n. 3307.
[5] Così T.A.R. Lazio Roma, sez. I – 8/2/2018 n. 1519, confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. IV – 12/10/2018 n. 5878). A detta conclusione sono pervenuti anche il Consiglio di Stato, sez. IV – 13/11/2017 n. 5190; sez. IV – 25/8/2015 n. 3985; T.A.R. Veneto, sez. I – 31/10/2019 n. 1182; T.A.R. Lombardia Milano, sez. III – 4/3/2016 n. 449, confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. III – 3/3/2017 n. 996.